
Quando parliamo di futuro pensiamo a qualcosa che deve ancora verificarsi, in uno spazio-tempo che è una dimensione avanti rispetto a quello in cui viviamo, proiettando il nostro sguardo verso l’oltre. Mostrandosi, peraltro, in incessante accadimento, e nel momento in cui diviene nella concretezza del qui e ora è già presente.
Tutto è in continuo movimento, anche ciò che non percepiamo come movente ma che è inconsapevolmente colto dal nostro occhio come tale, in una sorta di inconscio ottico. Che può essere disvelato se, ad esempio, poniamo una videocamera ferma davanti a una montagna per giorni e giorni: alla fine, guardando la ripresa, la montagna stessa ci sembrerà “respirare”, rivelandosi viva e in azione. Il cinema è in assoluto l’arte del moto costante, potremmo dire “perpetuo”, in un’oscillazione protesa verso l’attimo successivo e mai verso quello precedente, in una sequenza di immagini che si concatenano, spingendosi per lanciarsi incontro all’epilogo. La pellicola ruota instancabilmente senza sosta sulla bobina in senso orario, proiettando i fotogrammi da un principio a una fine. Ma potrebbe anche invertire antiorariamente il senso, con un effetto moviola dove tutto cammina al contrario, riavvolgendosi; oppure fermarsi per un istante, sospendendosi in un fermoimmagine di momentanea e beffarda staticità: la magia del “trucco”. Si comprende bene il motivo per cui fatale fu l’incontro tra il futurismo e la settima arte. Per i futuristi, “coloro che avevano la cinepresa nello stomaco”, è la cifra della modernità e l’emblema dell’arte per eccellenza: nel suo essere nata da poco, una novità assoluta libera da passati, tradizioni e modelli ingombranti; e nel suo essere decisamente “tecnologica”.
Macchinismo, dinamismo, antipassatismo, sperimentazione, frantumazione dello spazio e del tempo e dei soggetti in atomi di parzialità: tutti i capisaldi del pensiero futurista vi trovano posto e materializzazione, concretandosi sotto lo sguardo di un pubblico di massa, non elitario, che deve essere sorpreso, provocato, ma non educato. Del resto l’arte è vita, può e deve trasformare il mondo, la creatività è una perenne reinvenzione del vivere senza limitazione alcuna e il cinema, in questa direzione, è una rivoluzione stravolgentemente dirompente. Un riscontro e una sorta di preludio li si trovano già nella fotografia “dinamica”: le cronofotografie di Etienne Jules Murey; le spettralizzazioni di Anton Giulio Bragaglia; le moltiplicazioni di Umberto Boccioni, in qell’ “Io, Noi” che rammenta l’Io molteplice e imprendibile pirandelliano. Una fotografia “spiritica” che consacra la quarta dimensione, quella delle entità fantasmiche che ci circondano nella loro atomizzazione eterea, o dell’altra parte di noi, l’evanescente aurea energetica che ci accosta silente ma può essere impressa su una pellicola. Il 1916 vede la nascita di “Vita Futurista”, primo film del movimento (purtroppo andato perso!), composto a più mani dal gruppo fiorentino, su spinta di Marinetti: un insieme di “frammenti”, senza un’impalcatura e un copione portanti, con scene improvvisate, esplicitazione dell’ortodossia concettuale futurista che si contrappone nettamente alle precedenti realizzazioni di “Kolossal” dalla magniloquenza monumentale e dalla retorica museale.
Da questa esperienza l’11 settembre dello stesso anno viene redatto “Il Manifesto della Cinematografia futurista”, vademecum delle regole fondanti il nuovo cinema. Che, sostanzialmente, deve essere parodia della vita borghese e propaganda del vivere futuristicamente; eversivo, irriverente, irridente, giocoso, circense, festoso, astrattamente paradossale, spettacolare, illusorio, attrattivo, in una parola “popolare”, per e di tutti: una sinfonia di insiemi senza la consecutio logica di un intreccio, in grado di stimolare ciascun senso, travolgendo e stravolgendo il pubblico e rendendolo parte attiva. E dove l’uomo è un burattino, una robotica marionetta, che si fonde con il corpo macchina, non già e non più uno strumento a sé solo da usare ma un unicum con l’uomo stesso: l’umano macchinizzato e la macchina umanizzata, parlanti il medesimo linguaggio semiotico.
Indubbiamente merita menzione “Thaïs” di Bragaglia del 1917, dove abbiamo una sorta di trama ironicamente “melodrammatica”, con cenni nichilistico-decadenti e la comparsa di una figura di donna “femme fatale”, che porta alla perdizione, alla distruzione, alla morte.
Ma catalizzanti sono le atmosfere lugubri, mortifere, visionarie, folli, incubiche, deliranti coadiuvate e rimarcate da scenografie teatrali composite e compenetranti, da un “ambiente geometrico, astratto, decorativo, con spunti simbolistici anche molto pronunciati e con grandi occhi dipinti sulle pareti ed altri con grandi cerchi intersecati”, come lo descrive lo stesso scenografo Enrico Prampolini.
Un agglomerato labirintico, che ci catapulta in una dimensione straniante, fantascientifica: rimando a un mondo estremamente funzionale ma tentacolarmente disturbante e confondente. Il cinema futurista non trova grande fortuna in Italia, ma influenzerà non poco le avanguardie europee (soprattutto russa, tedesca, francese) che ne prenderanno il testimone come eredi dirette. E certamente una qualche ridondanza è possibile riscontrarla anche nelle produzioni contemporanee, per quel principio di contaminazione infinitamente continua e travalicante i limiti spazio-temporali che caratterizza l’arte tutta…
Chissà cosa penserebbero i futuristi se vedessero la società odierna, ultramegatecnologica, super veloce, iper fluida, sezionata e frazionata! Forse direbbero che è il loro film più riuscito.
Ombretta Di Pietro
L’incontro “Cinema Futurista”, terzo del ciclo “Comunicare l’Arte” realizzato da Galleria Campari e Fondazione Corriere della Sera, si è svolto martedì 8 novembre presso la Sala Buzzati della Fondazione. Con la partecipazione di Luisella Farinotti, Professore associato Film Studies Università IULM; Gianni Canova, Rettore e Professore Storia del Cinema e Filmologia Università IULM; Paolo Baldini, Corriere della Sera. L’ultimo incontro “Il genio di Fortunato Depero” si terrà giovedì 1 dicembre presso la Galleria Campari di Sesto.