Mani: la parte più operosa del nostro corpo, che ci consente di fare per e di esserci nel. Che accarezzano o schiaffeggiano, che costruiscono o distruggono, che ci proteggono o colpiscono, che si librano danzanti nell’aria, che battono il ritmo di una melodia, che si stringono nel dolore e si aprono nell’amare. Questi protuberi ramiformi della nostra corporeità tronchica ben piantata a terra con le solide radici della nostra storia: e le braccia si alzano tendendosi verso il cielo, mentre le dita ondeggiano afferrando improvvisamente una penna per raccontare i pensieri della mente, o una matita per disegnare i moti dell’animo, e un pennello per colorare i sospiri dello spirito…
Segni, frammenti, che leggono la vita e la restituiscono vestita di profondi e variegati significati. E la “linea”, congiungimento tra noi e il mondo, scoperta per caso dall’uomo primitivo che strisciò, da sinistra a destra, un tizzone, preso dal fuoco ormai spento, sulla parete di una caverna: ed ecco una riga nera, una traccia di sé sulla nuda pietra.
“Ci volle tempo, ma un po’ alla volta gli uomini cominciarono ad avere nelle loro mani le cose… a contornarle e delimitarle, dando così forma alla natura e ai suoi abitatori… E a loro stessi. Così si estraniarono dal mondo quel tanto che bastava a vedere i contorni: in breve a vederlo, e quindi a indagarlo, studiarlo, decifrarlo. E anche a ricrearlo. Da creati divennero creatori” (Tullio Pericoli, “Storie della mia matita”). Ed è proprio questa l’essenza principe dell’arte di Tullio Pericoli: osservare con acuto sguardo analitico tutto ciò che ci circonda, scrutando ogni cosa, esplorando ogni anfratto, investigando le imperscrutabilità del creato per penetrare nella sua essenza più intima e autenticamente vera. Scorgendo i riflessi di ogni paesaggio sul nostro volto e del nostro stesso viso su ciascun intorno, che ci appartiene e di cui facciamo parte: in un profondo legame genetico e culturale col nostro territorio d’origine, in cui radichiamo il nostro essere, e in un’affinità elettiva con ogni luogo in cui ci troviamo a vivere, che accresce la consapevolezza di chi siamo e di ciò che il mondo stesso è.
Così nei suoi spaccati paesaggistici preponderante è la stratificazione geologica e archeologica che compone la storia e la memoria singolare e collettiva: fatti di piani sovrapposti che il Nostro sembra sfogliare come le pagine di un libro, sbucciando il frutto per rivelarne la polpa, graffiando la coriacea superficie per grattare via quanta più materia possibile e giungere al nucleo pulsivo del cuore della terra. Un processo in sottrazione e frammentazione per ripristinare il collage panoramico, restituito sotto nuova fattezza e nella sua disvelata ancestrale entità. E di ricomposizione dell’insieme visivo generato dall’ unione di dinamiche parti composte dalla sommatoria di molteplici linee nere: lunghe, corte, dritte, curve, parallele, intersecantisi, puntiformi, schizzate come elementi decorativi che ci rammentano graffiti rupestri, in un libero insieme di liberatoria gestualità declamativa.
All’apparenza un magma ribollente confuso e nebuloso, ma, se ci allontaniamo di qualche passo, ecco che tutto risulta chiaro ed evidente, in un segno e disegno cosmico senza spazio definito e fuori da ogni tempo. Pochi colori a coprire il bianco spesso prevalente, terrosi ocra, marroni, verdi, arancio e porpora, o altresì un tripudio di accese cromie, perché i paesaggi cambiano costantemente, così come le persone che li contemplano e di cui si confanno. Alcuni elementi più grafici e geometrici compaiono in alcuni acquarelli, unitamente a lettere e grafemi di alfabeti indecifrabili, che sembrano far capo ad antiche civiltà, e a forme più identificabili, come le ricorrenti matite e i pennini: sorta di enigmatiche torri babeliche che sta a noi decifrare. Talvolta macchie nere compaiono in primo piano, come chiazze sull’obbiettivo di una macchina fotografica, quasi a disturbare l’inquadratura; talaltra i colori stessi sono così “liquefacentisi” da riprodurre fermoimmagini sfocati. Chiudiamo il nostro peregrinare attraverso i corridoi e le silenti stanze dell’Appartamento dei Principi, ornate da tappezzerie ricercate e porte dagli aurei inserti decorativi, in una dimensione sospesa di infinitezza atemporale, con alcuni ritratti di personaggi noti. Passando dal caricaturale con una venatura di grottesco, all’affrescale emergere di fisionomie appena abbozzate da fondi uniformi e gessosi, grattati come per rivelare l’impronta di sindoniche effigi ammantate di alonato mistero, che diventano più definite quanto più ci si discosta per osservarle… Ispezionare da vicino e da lontano per penetrare le peculiarità intrinseche di ogni ingrediente e per farne poi un piatto d’insieme, un corpo, un volto, un anima e uno spirito in un’unità totalizzante: il segreto “giocoso” della creatività di Pericoli a cui siamo chiamati a partecipare come soggetti attivi, la chiave di lettura della sua opera e del senso del mondo stesso. “Non dipingo paesaggi per fare paesaggi. Li dipingo soprattutto per il piacere di dipingere, e di fare un quadro dopo l’altro”, forse anche un divertissement senza troppi ma e senza troppi se?
Ombretta Di Pietro
La mostra di Tullio Pericoli “Frammenti” promossa e prodotta dal Comune di Milano Cultura, Palazzo Reale, Skira Editore e Design Terrae, curata da Michele Bonuomo in collaborazione con l’artista, allestita da Pierluigi Cerri. Fino al 9 gennaio nelle sale dell’Appartamento dei Principi del Palazzo Reale di Milano. Per info: www.palazzorealemilano.it; tel 02-88445181.