
Graffiti: graffi sulle superfici di cemento e mattoni, sui vagoni dei treni e delle metropolitane, sferzati da appuntite unghie laccate, che lasciano brandelli di vernice su ferite sgorganti voci di autoaffermazione, riappropriazione e sottesa identificazione di sé nel mondo. Forse ai nostri occhi incomprensibili, per alcuni scarabocchi o atti vandalici senza senso: invero un significato profondo si cela dietro a quegli “indecorosi” decori cittadini.
Il graffitismo o writing affonda le sue radici nel movimento hip hop nato negli anni ’60 nel quartiere newyorkese del Bronx come volontà di conquista dello spazio urbano (noti sono i Block party, vere e proprie feste di strada) di un’intera generazione, che cerca riconoscimento identitario emancipando la propria pulsiva autenticità.
Questa “cultura urbana” investe gli ambiti più disparati: dalla musica alla danza, dall’abbigliamento al linguaggio con la codificazione di uno slang ad hoc, che si traduce nelle e con le scritte murali. Al principio solo delle tag, pseudonimi di ogni graffitista, il loro alter ego, scelte per esprimere al meglio la specificità soggettività: incognite firme stilizzate, monocolore, semplici nella composizione ma ciascuna differente dall’altra, talvolta seguite da suffissi, numeri o loghi identificativi, con uno stile personale ben preciso, creato esercitandosi abbondantemente su fogli di carta per trovare la migliore soluzione che coniugasse espressione e rapidità esecutiva. Successivamente cominciarono a comparire i “pezzi”, evoluzione delle firme stesse che, di fatto, diventano più grandi, più disegnate: i cosiddetti throw-up, sempre essenziali, generalmente di un solo colore di fondo, con contorni, tendenzialmente neri, più o meno spessi (outline), dalle forme bombate o geometriche e pur sempre di veloce esecuzione.
Questa “hip hop graffiti art” divenne ben presto un fenomeno così dirompente da varcare i confini nazionali, invadendo tutto il pianeta. Ed evolvendosi nell’elaborazione: aggiunta di sfondi, policromie, tinte più accese (Wild Style), elementi filtrati dalla tipografia, dai cartoon, dal fumetto, dalla segnaletica stradale. Volontà di imprimere un personale segno nella società, rompendo gli schemi sovrastrutturali, discostandosi dal convenzionale senza voler cambiare o spiegare nulla, urlando col fischiante spruzzo della bomboletta: “spray-can art”! Formando delle crews (gruppi), ciascuna con un acronimo identificativo, fondate sulla stima e il rispetto reciproco di ciascun componente che mantiene, al suo interno, la propria unicità creativa.
In parte differente è la Street Art, le cui origini possono essere rimandate al muralismo, movimento pittorico nato in Messico dopo la rivoluzione del 1910, dai forti contenuti sociali, storici, culturali, nazionalisti. Ma non possiamo dimenticare la tradizione affrescale dell’Europa medievale e rinascimentale, di formidabile immediatezza comunicativa soprattutto per la popolazione meno colta, la cosiddetta “Biblia pauperum”.
Sostanzialmente l’arte di strada si caratterizza di elementi compositivi estremamente più elaborati e compositi, materiali di varia tipologia (vernici, spray, poster, adesivi, sculture…), svariate tecniche (stencil, aerosol painting, videoproiezioni…), per dar vita a dei “quadri” a cielo aperto, che si rifanno a stilemi di classicità superandoli con un lessico moderno mutuato dagli svariati ambiti della divulgazione. Una costellazione eterogenea e ibrida di buskers e street performers si avvicendano nel colorare le nostre città per il bisogno di sottrarsi al concetto di arte come intrattenimento per pochi, rinchiusa in gallerie a pagamento e, perlopiù, per estimatori.
Liberare l’arte, renderla fruibile a tutti, senza limiti di pareti soffocanti, in un museo alla luce del sole dove ogni cittadino diventa soggetto concausante e critico, in una coesione ampia e partecipata. Liberare sé stessi dal limite di un foglio, di una tela, di uno studio, e dipingere nelle grandi dimensioni “en plan air”. Arricchire l’arte stessa di contenuti, facendone un impegno e una “mission” sociale: che possono essere di denuncia, di sensibilizzazione rispetto a profonde tematiche attuali (Banksy docet!), di rieducazione al bello, anche nella restituzione del decoro a zone degradate del contesto territoriale. Raccontando “favole”, estremamente leggibili, ma che celano messaggi “occulti”, capaci di penetrare nelle coscienze di chi guarda con attenzione e che spesso rivelano un lieto fine. Politica, estetizzazione, speranza, utopia: “datemi una bomboletta e cambierò il mondo” potremmo dire! Il muro non è più una superficie ma un luogo, all’interno del quale l’immagine vive e a cui la stessa ridà vita, forgiata dal faticoso procedere estremamente fisico di chi afferma “sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore” (Bertolt Brecht).
Quella che nasce come qualcosa ai limiti della legalità, oggi assurge dignitosamente al riconoscimento di “corrente artistica”, l’avanguardia più contemporanea, in grado di condizionare anche moda, design, pubblicità per l’eccezionale impatto e visibilità…
Forse adesso camminando per le vie cittadine, riusciremo a gradire maggiormente quelle opere che ci scrutano porgendoci un invito: anche quegli splendidi murales che possiamo rimirare sulla recinzione perimetrale della storica Villa Campari di Sesto San Giovanni, lungimiranza di una ditta che ha fatto dell’icona pop e hip hop il suo cavallo di battaglia e boccata d’ossigeno per chi ha il riguardo di ammirarli.
Ombretta Di Pietro
L’incontro ‘Il murale: street art, guerrilla marketing e comunicazione’ organizzato dalla società Campari in collaborazione col Corriere della Sera, nell’ambito del ciclo di appuntamenti ‘Quando l’arte incontra la pubblicità’, si è svolto martedì 2 novembre c/o la Fondazione Corriere della Sera, con la partecipazione di Vincenzo Trione, critico d’Arte, Nais, artista, Ivan, poeta di strada, Damiano Fedeli, Corriere della Sera.