La porta cigola stridente e si richiude dietro di noi con un tonfo serrato, sbalzandoci nell’atmosfera misterica di un teatro tutto da leggere. Sentiamo arrivarci da lontano l’eco dei tasti del computer, battuti con ardimento dalle dita appassionate del regista fino all’ultimo rintocco, all’ultimo sospiro di liberata creatività: “ecco, lo spettacolo ha inizio, siamo pronti!”, ci diciamo in trepidante attesa. Il sipario si apre e davanti a noi scorrono le immagini di una scenografia in bianco e nero schizzata da qualche pennellata carminia, come ogni noir che si rispetti. Intermittenti proiezioni della protagonista numero uno, la metropoli milanese, che si ama e si odia con tutte le sue contraddizioni, con i suoi bui e le sue luci, i suoi miasmi e i suoi profumi, i suoi rumori assordanti e i suoi angoscianti silenzi, la genetica frenesia formicante e l’apparente calma piatta, pigra e convulsa, annoiata ed eccitata al contempo. E poi, come per incanto, spunta la città Sesto San Giovanni, alla periferia nord: “Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!”, spasimiamo con esaltazione per sentirci parte attiva di questa pièce a cui siamo chiamati a partecipare e per quel brivido d’orgoglio di diventare anonimamente famosi, perché è la nostra città, come per 37 anni è stata anche quella dell’autore, sempre uno di e tra noi.
Tutto ha inizio con l’omicidio di Attilio Besana, cassiere di una banca, durante una rapina. Sembra un caso già risolto e invece siamo solo al primo tassello di un puzzle fatto di tanti pezzi caoticamente mescolati, da ricomporre con paziente meticolosità. E tocca agli attori prodigarsi nell’assumere il loro ruolo specifico all’interno della vicenda, ognuno con la sua parte da recitare e il suo contributo da dare. E a poco a poco prendono forma, tratteggiati con precisione dalla mano esperta di un disegnatore, che ne delinea i tratti con la grafite della sua matita e ne colora i costumi di scena con acquarellate tinte variegate, più tenui o più accese. Riempiti nella sostanza dal sapiente e diligentemente scrupoloso lavoro di un empatico scrittore, che da loro forza e debolezza, coraggio e paura, amore e risentimento, tenacia e stanchezza, volontà e insicurezza: tutte le tonalità dell’animo umano e le intonazioni della componente psicologica, sviscerate dai tic, dalle nevrosi, dalle abitudini quasi ossessive, dagli atteggiamenti compulsivi di difficile gestione che definiscono ciascun interprete. E su tutti lui, l’ispettore Valerio Giusti, con la sua giacca di pelle nera, apparentemente duro, schivo, enigmatico, brusco, invero lacerato, combattuto, coinvolto. Amante dei gatti (che “sanno comprendere le emozioni umane più di quanto si possa immaginare”) e della giustizia, al punto da denunciare i corrotti anche all’interno del corpo di polizia, creando non pochi dissensi; capace di spingersi oltre il limite della legalità procedurale ma solo col fine legittimo di far condannare i colpevoli, di non giudicare ma comprendere. E che nasconde un segreto, come il suo precursore Fabio Salvi, il giornalista personaggio principale dei precedenti romanzi di Pegorini, che non sparisce però dalla penna dell’autore, ma fa un passaggio di testimone e una rapida ricomparsa, perché nulla termina per sempre, anzi potrebbe ricominciare, tracciando un filo invisibile che tutto unisce in una sorta di continuità ereditaria. Accanto a Giusti il navigato vicequestore Calvanese, l’esperta sovrintendente Gardini, e i giovani agenti alle prime armi Egger, bramoso d’azione, e Bettoni, mago dei computer: non solo la collaudata lavagna magnetica, ricamata da rossi cerchi e linee pluridirezionali, ma il dark web oggi è un supporto imprescindibile.
Ci prendono per mano e insieme ci lanciamo nella labirintica topografia di Milano, un intrico di vie accuratamente descritte che rispecchia la complessità del caso, con le sue svariate piste da seguire disseminate di indizi da interpretare, e quella ancor più meandrica dei sentimenti: “e lì i rimbalzi del pallone… a volte sono imprevedibili”.
Tra una pioggia battente che crea “un’insolita colonna sonora di percussioni naturali” che “può donare passione irrefrenabile come malinconia illimitata”: e quanto di questo ritroviamo in ciascun rigo narrante.
Tra la luce dei lampioni “che è offuscata dalle piante che coprono in parte le plafoniere”. Tra “i violenti raggi di sole che ricadono in diagonale” e tra le nuvole che “sembrano voler fuggire via dal cielo milanese, spazzate da un forte vento sopraggiunto dal nulla”. Uno stile di scrittura che unisce una crudezza di termini con squarci ampiamente evocativi, dando al romanzo una nota in più di gradevole melodia, che alleggerisce la stridente antinomia discordante racchiusa in questa storia di colpevoli che sembrano innocenti, di innocenti che paiono colpevoli, in una partita a scacchi e un perverso gioco di potere tra la feccia malavitosa e chi dell’onestà e di ciò che è giusto ne fa un principio di vita. Biografia di una città, di una modernità contemporanea con cenni autobiografici che cogliamo leggendo tra gli spazi bianchi delle interlinee, nel non detto del “dark writing”.
Con un finale a sorpresa per un movente inimmaginabile, in grado di strapparci un incredulo sorriso stupefatto. The end, potremmo dire! Ma il poliziotto continua “a fissare la porta di casa. Non chiuderà a chiave. Almeno non questa notte”… alla prossima puntata allora!
Ombretta Di Pietro
“Almeno non questa notte”, l’ultimo libro del giornalista e scrittore sestese Roberto Pegorini, edizioni Caosfera.